“Il ragno tira le tende nel palazzo dei Cesari, il gufo fa la sentinella nelle torri di Afrasiab”
C’era una volta una casa, bellissima, in un quartiere nobile di Napoli. Alta, con soffitti affrescati e pareti che raccontavano storie antiche. Era stata il cuore pulsante della famiglia, un rifugio dove i genitori avevano cresciuto i loro figli tra risate, discussioni e cene di famiglia. Una casa che trasudava vita e calore, il simbolo di ciò che li teneva insieme. Ma poi, come accade in tutte le storie, i genitori se ne andarono. E con la loro morte, tutto ciò che quella casa rappresentava cominciò a sgretolarsi.
La successione si aprì come una ferita, e ciò che una volta univa i fratelli ora li divideva come una lama. Tre figli, ognuno convinto di avere più diritto degli altri. Tre eredi che, anziché trovare conforto nel ricordo della loro casa di famiglia, iniziarono una guerra di rivendicazioni. Soldi, quadri, gioielli, donazioni e soprattutto quella casa. Tutti la volevano, ma nessuno era disposto a cedere. Ogni proposta di accordo cadeva nel vuoto, come parole disperse nel vento. Ogni incontro con gli avvocati si trasformava in un campo di battaglia, dove non si discuteva di un’eredità, ma di vecchie ferite mai guarite.
Il giudice tentava di fare da mediatore, di suggerire soluzioni, di ricordare loro che, alla fine, era solo una questione di pareti e mattoni. Ma non era solo quello, vero? Era il simbolo di tutto ciò che avevano perso, di tutto quello che non erano mai riusciti a dirsi. E così, le battaglie legali continuavano, udienza dopo udienza, mentre la casa di famiglia restava lì, immobile, come un monumento silenzioso al loro disaccordo.
E il tempo passava. Le finestre, un tempo luminose, ora erano coperte di polvere e ragnatele. Il giardino, una volta curato e rigoglioso, era diventato un intrico selvaggio di erbacce e rovi. Ogni crepa nei muri sembrava un’eco delle loro fratture familiari. La casa, che un tempo era stata il fulcro della loro vita, ora stava andando in rovina. Nessuno voleva spendere un centesimo per ripararla, nessuno osava investirci perché nessuno aveva la certezza di poterla tenere per sé. Era come se la casa stessa si stesse arrendendo, riflettendo la loro incapacità di trovare un punto d’incontro.
E così, anno dopo anno, la bellezza della casa si sgretolava sotto il peso delle loro rivalità. I soffitti affrescati cominciavano a sgretolarsi, i pavimenti di marmo a creparsi, i ricordi a svanire. Quella casa, un tempo splendida, stava diventando un guscio vuoto, una metafora della loro famiglia distrutta.
E tra una causa e l’altra, tra le discussioni e le udienze, passavano gli anni. Dieci anni di guerre legali senza fine. Dieci anni in cui quella casa, che avrebbe potuto essere un rifugio o una nuova partenza, veniva lasciata a se stessa. E ora, dopo tutto quel tempo, la sentenza più probabile è la più triste: finirà all’asta, svalutata, dimenticata, venduta a chiunque voglia prendersi un pezzo del loro passato per un prezzo stracciato. Un passato che loro stessi hanno lasciato andare in rovina, perché incapaci di trovare un accordo, perché troppo impegnati a distruggere ciò che restava della loro famiglia.
E alla fine, ci si chiede: a cosa serve vincere una battaglia, se alla fine si perde tutto ciò che conta davvero? A cosa serve aggrapparsi a una casa, a dei muri, se in quella guerra perdi le persone, i ricordi, la tua stessa storia? Una casa che cade a pezzi mentre loro si sgretolano dentro, pezzo dopo pezzo, fino a che non rimane più nulla, né della casa, né di quello che un tempo li legava.