Il diritto sospeso: permessi di soggiorno, unità familiare e le lunghe ombre della burocrazia. Una infermiera immigrata in Italia con regolare visto d’ingresso, contratto di lavoro, contratto d’affitto e con un marito nel paese d’origine. Una bella storia apparentemente, vista la carenza sistemica di personale sanitario. Tuttavia questa professionista che si prende cura di cittadini italiani non può chiedere il ricongiungimento con il proprio marito, perchè per il rilascio del permesso di soggiorno (nonostante la regolarità con il visto e la formalizzazione della richiesta per il permesso di soggiorno) deve aspettare quasi due anni.
Due anni lontana dal proprio marito.
Il marito: un altro professionista che potrebbe portare beneficio sia in termini lavorativi, che di gettito fiscale, che di diminuzione demografica.
Il caso concreto, quindi, di una professionista sanitaria immigrata in Italia, costretta a attendere anni per la formalizzazione del proprio permesso di soggiorno e quindi impossibilitata ad avviare una pratica di ricongiungimento familiare, apre una finestra su una questione tanto complessa quanto urgente:
l’equilibrio tra i diritti fondamentali e la gestione burocratica dell’immigrazione.
Una richiesta respinta: il caso concreto
L’istanza presentata dalla sig.ra X alla Questura di una città italiana (senza specificare altrimenti si potrebbe pensare che il problema è di quella specifica città) richiedeva un’anticipazione della data fissata per formalizzare la richiesta di permesso di soggiorno, appuntamento attualmente previsto ad un anno dalla richiesta di anticipazione. Ed ulteriore tempo sarà necessario per il successivo effettivo rilascio. Nella sua richiesta, la sig.ra X sollevava questioni cruciali:
- La sua posizione come figura essenziale nel sistema sanitario italiano, in un contesto riconosciuto di carenza di personale;
- La necessità di avviare una pratica di ricongiungimento familiare con il coniuge residente all’estero;
- Le difficoltà di accedere a esami clinici e benefici sanitari fondamentali in assenza di codice fiscale e tessera sanitaria.
La risposta della Questura, pur riconoscendo la possibilità per la sig.ra di lavorare grazie alla sola sottoscrizione del contratto presso lo Sportello Unico per l’Immigrazione, rigettava la richiesta con la motivazione che le esigenze sollevate non fossero “gravi e documentate”. Questo approccio, apparentemente tecnico, mette in luce una tensione sistemica tra diritti umani e prassi amministrative.
In sostanza la Questura diceva:
“può lavorare quindi va bene così”.
Diritto all’unità familiare: una tutela di principio e di fatto?
Normativa nazionale e internazionale
Il diritto all’unità familiare, non considerato minimamente nella burocratica risposta, è sancito sia dalla legislazione nazionale che da quella internazionale. L’articolo 29 del D.Lgs. 286/1998 (Testo Unico sull’Immigrazione) riconosce il diritto degli stranieri soggiornanti in Italia a richiedere il ricongiungimento familiare. A livello internazionale, l’articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) garantisce il diritto al rispetto della vita privata e familiare, includendo anche il ricongiungimento familiare quando ostacoli burocratici lo rendano irraggiungibile.
Lo Stato deve Tutelare e Agevolare l’Unità Familiare
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha più volte affermato che gli Stati devono bilanciare il controllo dell’immigrazione con il rispetto della vita familiare. In casi come Berrehab c. Paesi Bassi (1988) e Tuquabo-Tekle c. Paesi Bassi (2005), la Corte ha sottolineato che le misure che rendono impossibile il mantenimento di una vita familiare possono costituire una violazione dell’articolo 8, a meno che non siano proporzionate e giustificate da un interesse pubblico preponderante. Le violazioni dell’articolo 8 della CEDU sono le più comuni in Italia.
Proporzionalità e bilanciamento
Nel caso della sig.ra X, il ritardo nella formalizzazione del permesso di soggiorno di fatto impedisce l’esercizio del diritto al ricongiungimento familiare. La questione è se tale ritardo sia proporzionato e giustificato. La risposta della Questura, che si limita a dichiarare che il calendario delle pratiche è organizzato secondo una programmazione “immodificabile”, non affronta adeguatamente la valutazione del pregiudizio arrecato alla sig.ra X rispetto agli obiettivi amministrativi dello Stato. Non considera l’unità familiare, non considera la persona, non considera l’importanza di quella figura professionale, attualmente di fatto estromessa dai diritti più basilari. Può lavorare quindi va bene.
Sanità e sicurezza: il paradosso della professionista sanitaria
Accesso ai diritti sanitari
L’articolo 32 della Costituzione italiana tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività. Nel caso della sig.ra X, l’impossibilità di accedere pienamente al sistema sanitario nazionale – a causa della mancata emissione del permesso di soggiorno e del relativo codice fiscale – rappresenta una violazione indiretta di tale diritto.
Paradossalmente, la sig.ra X, pur lavorando come figura essenziale nel sistema sanitario, non può usufruire dei servizi sanitari in modo completo. Questo contrasta con la normativa europea sulla protezione dei lavoratori, tra cui la Direttiva 89/391/CEE, che impone agli Stati membri di garantire la salute e la sicurezza dei lavoratori, inclusa la copertura sanitaria.
Precedenti giuridici
La Corte Costituzionale italiana, nella sentenza n. 306/2008, ha ribadito che la tutela della salute deve essere garantita anche agli stranieri irregolari, a maggior ragione se si tratta di lavoratori che contribuiscono al sistema economico e sociale del Paese. In questo contesto, il caso della sig.ra X solleva interrogativi sulle lacune nella protezione dei diritti di chi è in regola ma è vittima di ritardi amministrativi.
Burocrazia e diritti umani: il nodo della lentezza
Ritardi sistemici
Il ritardo nella gestione delle pratiche di permesso di soggiorno non è un caso isolato. Secondo un rapporto dell’ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione), i tempi di attesa per la formalizzazione di permessi di soggiorno possono durare fino a due o tre anni in alcune regioni italiane, una situazione che mette a rischio diritti fondamentali e genera una forma di discriminazione de facto.
In questo scenario, il ruolo dell’impiegato statale si trasforma. Da figura potenzialmente empatica, capace di mediare tra i meccanismi amministrativi e i bisogni delle persone, diventa un automa. Intrappolato in un sistema di regole rigide e codificate, spesso l’operatore della pubblica amministrazione è costretto ad anteporre il rispetto delle procedure alla risoluzione concreta dei problemi. Questa spersonalizzazione del servizio pubblico contribuisce a una distanza crescente tra lo Stato e il cittadino, alimentando una percezione di abbandono e ingiustizia.
Ma non solo, possiamo anche pensare alla società. Questi ritardi sistemici, portano anche a gravi problematiche dal punto di vista della sicurezza. Lasciando per un momento il caso in esame pensiamo ad un immigrato che deve attendere uno o due anni per ottenere il permesso di soggiorno, cosa fa in questi due anni se non può di fatto lavorare? Oppure un immigrato che non ha il diritto di restare in Italia, con una pratica bloccata per anni, cosa fa nell’attesa?
Violazione dell’articolo 97 della Costituzione
La lentezza amministrativa potrebbe essere vista come una violazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione sancito dall’articolo 97 della Costituzione italiana. Un sistema inefficiente non solo danneggia i singoli, ma compromette la fiducia nelle istituzioni pubbliche. Beh… quella poca fiducia che ancora qualcuno ha.
La critica: un sistema che ignora il capitale umano
La risposta miope della Questura al caso della sig.ra X rappresenta un esempio emblematico di come la fredda burocrazia possa diventare un ostacolo per i diritti fondamentali, anziché un mezzo per garantirli. In un contesto globale in cui le migrazioni sono una realtà strutturale, l’Italia non può permettersi di perdere di vista l’importanza del capitale umano (ed economico) che i lavoratori immigrati rappresentano o possono rappresentare. Sopratutto se specializzati o se disposti a lavorare in quei settori spesso abbandonati dagli stessi italiani.
La rigidità delle prassi amministrative sembra ignorare il valore aggiunto che figure come la sig.ra X apportano alla società. La pandemia di COVID-19 ha mostrato chiaramente quanto il sistema sanitario dipenda da professionisti di origine straniera. La mancata valorizzazione di queste persone non è solo un errore giuridico, ma anche una miopia politica ed economica.
Una riforma necessaria e un approccio autocritico al problema dell’immigrazione
Il caso della sig.ra X evidenzia la necessità di riformare il sistema di gestione dei permessi di soggiorno in Italia. Misure come la digitalizzazione delle pratiche, la creazione di corsie preferenziali per lavoratori essenziali e un maggiore controllo sull’efficienza degli uffici potrebbero ridurre significativamente i ritardi. Tuttavia, una vera riforma richiede anche un cambio di paradigma: riconoscere che la gestione dell’immigrazione non è solo una questione amministrativa, ma un test cruciale per la tenuta dei valori democratici e dei diritti umani.
Il ritardo di un permesso di soggiorno può sembrare una banalità burocratica. In realtà, è un barometro dello stato di salute del nostro sistema giuridico e della nostra capacità di conciliare le esigenze dello Stato con la dignità della persona. La persona, che è sempre più lontana dallo stato e dalla burocrazia, e a cui sembra che ci si rivolge solo in caso di elezioni e contributi fiscali.
Finché queste lunghe ombre persisteranno, i diritti, per molti, resteranno solo una promessa incompiuta.
Bilanciamento tra Sicurezza e Diritti Fondamentali