Il nuovo reato di femminicidio: tutela reale o misura propagandistica?
Il Consiglio dei Ministri ha recentemente approvato un disegno di legge che introduce il reato autonomo di femminicidio, qualificando come tale l’omicidio di una donna per motivi di discriminazione, odio di genere o per impedire l’esercizio dei suoi diritti fondamentali. La proposta, che si inserisce nel quadro delle misure di contrasto alla violenza di genere, ha suscitato un dibattito tra i giuristi, con implicazioni costituzionali non trascurabili teorizzando vari aspetti di Incostituzionalità del Nuovo Reato di Femminicidio. Tuttavia, come sempre accade, questo dibattito è solo tra i tecnici del settore e viene ignorato dalla politica.
Una tutela costituzionalmente problematica?
L’introduzione di un reato specifico per il femminicidio solleva dubbi di compatibilità con l’articolo 3 della Costituzione, che sancisce il principio di uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. L’ordinamento già prevede l’omicidio (art. 575 c.p.) e diverse aggravanti che puniscono in modo più severo i reati connotati da odio di genere o motivazioni discriminatorie (art. 604-ter c.p.).
La creazione di un reato autonomo esclusivamente per le donne potrebbe essere vista come una violazione del principio di uguaglianza formale e sostanziale, lasciando scoperti altri soggetti vulnerabili, come uomini vittime di violenza femminile, persone transgender o omosessuali. Una soluzione più equilibrata potrebbe essere l’estensione dell’aggravante per crimini d’odio, piuttosto che l’introduzione di un reato connotato da una specifica identità di genere della vittima.
Se la legge prevede che solo le donne possano essere vittime di “femminicidio”, lascerebbe scoperti:
Uomini omosessuali vittime di crimini d’odio da parte di partner o ex partner.
Persone transgender (specialmente le donne trans, che potrebbero essere vittime di violenza di genere ma non rientrare tecnicamente nella categoria di “donne” in tutti i contesti giuridici).
Persone non binarie, che non si identificano in una categoria binaria di genere.
Questa esclusione potrebbe portare a una disparità di tutela e rendere la norma incostituzionale, poiché violerebbe il principio di uguaglianza e di ragionevolezza (secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale, una distinzione di trattamento deve essere giustificata da una “ragionevole necessità”).
Un altro problema è che la legge, se scritta in modo rigido, escluderebbe automaticamente gli uomini vittime di donne, che pure esistono, sebbene in numeri minori.
Se una donna uccide un uomo per motivi di discriminazione o per ostacolare i suoi diritti, perché quel caso non dovrebbe essere considerato alla stessa stregua del femminicidio?
Escludere a priori gli uomini vittime potrebbe essere considerato irragionevole e contrario al principio di eguaglianza.
Tuttavia, la Corte Costituzionale ha più volte affermato che il principio di uguaglianza non impedisce di adottare misure differenziate per tutelare soggetti in condizioni di particolare vulnerabilità. La questione è quindi delicata e dipenderà dalla formulazione esatta del reato e dalla sua compatibilità con il principio di ragionevolezza.
Per rendere la norma più equa e costituzionalmente legittima, si potrebbe:
Creare un’aggravante per i reati d’odio di genere, invece di un reato esclusivo per il “femminicidio”.
Estendere la tutela a tutte le vittime di violenza di genere, indipendentemente dal sesso o dall’identità di genere.
Utilizzare formulazioni più inclusive, come “omicidio motivato da ragioni di genere, identità di genere o orientamento sessuale”.
Limitazioni ai benefici penitenziari e principio rieducativo della pena
Un altro punto controverso del disegno di legge è la previsione di limitazioni all’accesso ai benefici penitenziari per i condannati per reati di violenza di genere. L’esclusione automatica da misure come la semilibertà o la liberazione anticipata potrebbe porsi in contrasto con l’articolo 27 della Costituzione, secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. La Corte Costituzionale ha più volte dichiarato illegittime norme che prevedevano esclusioni automatiche dai benefici senza una valutazione caso per caso da parte del giudice.
L’esclusione dai benefici penitenziari per i condannati per reati del Codice rosso potrebbe porsi, quindi, in contrasto con l’articolo 27 della Costituzione, secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Se la norma introduce un’esclusione automatica senza considerare il percorso rieducativo del detenuto, potrebbe essere dichiarata incostituzionale.
Presunzione di adeguatezza degli arresti domiciliari e principio di personalizzazione delle misure cautelari (Art. 13 e 27 Cost.)
Un altro punto controverso potrebbe essere la previsione di una presunzione di adeguatezza degli arresti domiciliari che potrebbe entrare in contrasto con Art. 13 Cost., che stabilisce che la libertà personale può essere limitata solo nei casi previsti dalla legge con atto motivato del giudice. Una presunzione potrebbe ridurre il potere discrezionale del magistrato. L’Art. 27 Cost., impone un trattamento individualizzato anche nelle misure cautelari. Se la presunzione non lascia spazio a una valutazione caso per caso, potrebbe essere contestata per incostituzionalità.
Un disegno di legge propagandistico?
Oltre alle problematiche costituzionali, ci si interroga sulla reale efficacia di questo disegno di legge. Il concetto di femminicidio è già riconosciuto dalla giurisprudenza e la normativa esistente consente già di punire con particolare severità gli omicidi connotati da odio di genere. L’introduzione di un reato specifico sembra più rispondere a esigenze di comunicazione politica che a una reale necessità giuridica. In altre parole, si potrebbe trattare di una misura più simbolica che sostanziale, volta a rafforzare il messaggio politico del governo sulla lotta alla violenza contro le donne senza però introdurre strumenti realmente innovativi o più efficaci rispetto alla normativa esistente.
Sarebbe più opportuno investire risorse e impegno in progetti sociali, partire dalle scuole e dai servizi sociali, dalla cultura e dalla prevenzione, lasciando stare il diritto penale che per sua natura non può e non dovrebbe essere utilizzato per la prevenzione di problemi culturali. Si dovrebbe iniziare a pensare di combattere l’Odio con la Cultura e non con il Diritto Penale. Invece la miopia politica sia di destra che di sinistra combatte l’Odio con il Diritto Penale, una scienza che troppo spesso viene maneggiata in modo incauto e, utilizzando il termine più corretto, STUPIDO!.
Se da un lato l’obiettivo di contrastare la violenza sulle donne è senza dubbio meritevole, dall’altro il disegno di legge solleva criticità dal punto di vista costituzionale e giuridico. Piuttosto che creare un reato autonomo potenzialmente discriminatorio, una riforma più solida potrebbe rafforzare le aggravanti esistenti e migliorare l’applicazione delle misure di prevenzione e protezione delle vittime. La battaglia contro la violenza di genere deve basarsi su strumenti giuridici efficaci e costituzionalmente sostenibili, evitando interventi normativi dal forte impatto mediatico ma dalla dubbia utilità pratica.
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