Il Problema della Discrezionalità Giudiziaria in Italia è uno degli argomenti molto interessanti che è stato di nuovo ribadito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza Gangemi c. Italia. Partendo dalle misure di prevenzione, che hanno dato il là al ricorso presentato, arriveremo ad analizzare le criticità più e più volte individuate nel sistema Italiano.
Le misure di prevenzione: definizione e normativa di riferimento
Le misure di prevenzione sono strumenti di carattere amministrativo e giudiziario finalizzati a prevenire la commissione di reati da parte di soggetti ritenuti pericolosi per la sicurezza pubblica. A differenza delle sanzioni penali, le misure di prevenzione non richiedono l’accertamento di un reato specifico, bensì una valutazione di pericolosità sociale fondata su elementi indiziari.
La disciplina delle misure di prevenzione trova la sua principale fonte normativa nel Decreto Legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice Antimafia), che ha riordinato e sistematizzato le disposizioni precedentemente sparse in diversi testi normativi. Le principali misure di prevenzione personali previste sono:
- La sorveglianza speciale di pubblica sicurezza (art. 6 D.lgs. 159/2011), che impone obblighi di condotta e restrizioni della libertà personale;
- L’obbligo di soggiorno in un determinato comune (art. 8 D.lgs. 159/2011);
- Il divieto di soggiorno in determinati comuni o province (art. 8 D.lgs. 159/2011).
A queste si aggiungono le misure patrimoniali, tra cui la confisca e il sequestro dei beni (artt. 20-26 D.lgs. 159/2011), volte a colpire le risorse economiche dei soggetti ritenuti pericolosi.
La dichiarazione di pericolosità sociale: criteri e prove
Per l’applicazione delle misure di prevenzione personali, la legge richiede che il soggetto sia considerato socialmente pericoloso. L’art. 1 del D.lgs. 159/2011 elenca diverse categorie di persone suscettibili di misure di prevenzione:
- Coloro che sono abitualmente dediti a traffici illeciti (art. 1, lett. a);
- Coloro che vivono abitualmente con i proventi di attività delittuose (art. 1, lett. b);
- Coloro che per il loro comportamento devono ritenersi abitualmente dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo la sicurezza o la tranquillità pubblica (art. 1, lett. c).
L’accertamento della pericolosità sociale si basa su una valutazione prognostica che tiene conto di vari elementi indiziari, quali precedenti di polizia, frequentazioni, disponibilità economiche ingiustificate e altre circostanze di fatto. Tuttavia, proprio questa natura indiziaria dell’accertamento ha sollevato numerose critiche, in quanto lascia ai giudici un’ampia discrezionalità nell’applicazione delle misure, con il rischio di violare i principi di legalità e prevedibilità del diritto.
La discrezionalità del giudice gioca un ruolo chiave nell’interpretazione di questi elementi e nella valutazione della pericolosità.
L’Analisi della Sentenza Gangemi c. Italia
La recente sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso Gangemi c. Italia ha rimesso in discussione la compatibilità delle misure di prevenzione italiane con l’art. 6 CEDU (diritto a un equo processo) e con l’art. 2 del Protocollo n. 4 (libertà di circolazione).
Nel caso di specie, il ricorrente, ritenuto socialmente pericoloso, era stato sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno nel comune di residenza. La Corte EDU ha evidenziato che la valutazione della pericolosità sociale si era basata su indizi generici e privi di un adeguato contraddittorio, violando il principio di equità processuale.
La Corte ha richiamato il precedente De Tommaso c. Italia (2017), in cui era stato stabilito che le misure di prevenzione italiane presentano un grado di indeterminatezza eccessivo, non garantendo sufficienti garanzie contro l’arbitrarietà.
Il Problema della Discrezionalità Giudiziaria
Uno dei punti più controversi delle misure di prevenzione è l’ampia discrezionalità riconosciuta ai giudici nella valutazione della pericolosità sociale. Tale discrezionalità si basa su un criterio prognostico, che non richiede la prova certa di un reato, ma solo la ragionevole previsione di un comportamento criminoso futuro.
Questo sistema ha sollevato preoccupazioni sotto diversi profili:
- Indeterminatezza normativa: la definizione di “soggetto pericoloso” è spesso generica e soggetta a interpretazioni ampie.
- Mancanza di garanzie procedurali: il soggetto colpito da una misura di prevenzione non gode delle stesse tutele di un imputato in un processo penale.
- Possibile arbitrarietà: la discrezionalità giudiziaria può portare a decisioni difformi in casi simili.
La giurisprudenza europea spinge verso una maggiore tutela dei diritti individuali, imponendo all’Italia una revisione del sistema delle misure di prevenzione per garantire maggiore certezza giuridica e rispetto dei principi della CEDU.
Il Ruolo della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione ha un ruolo cruciale nel controllo della legittimità delle misure di prevenzione, garantendo che esse siano applicate nel rispetto delle norme vigenti e dei principi costituzionali ed europei. Tuttavia, spesso la Suprema Corte si è limitata a verificare la coerenza logico-giuridica delle decisioni dei tribunali di merito, senza entrare nel merito della valutazione della pericolosità sociale.
La giurisprudenza italiana ha oscillato tra un approccio più garantista e uno più rigoroso. Tuttavia, la pressione della Corte EDU ha spinto la Cassazione a un’interpretazione più restrittiva delle misure di prevenzione, ponendo maggiore attenzione alle garanzie difensive e alla necessità di prove concrete a sostegno della pericolosità sociale.
Il Principio di Proporzionalità
Un altro aspetto fondamentale della sentenza Gangemi c. Italia è la violazione del principio di proporzionalità. Secondo la Corte EDU, le misure di prevenzione devono essere bilanciate rispetto ai diritti fondamentali dell’individuo e devono essere adottate solo se strettamente necessarie e proporzionate al fine perseguito.
Nel caso Gangemi, la Corte ha rilevato che le restrizioni imposte al ricorrente erano eccessive rispetto alle prove presentate. L’assenza di elementi concreti sulla pericolosità sociale ha reso la misura sproporzionata rispetto all’obiettivo della sicurezza pubblica.
Le Eccezioni Sollevate dallo Stato Italiano
Nella difesa dello Stato italiano, il governo ha sollevato diverse eccezioni, tra cui:
- La necessità di strumenti flessibili nella lotta alla criminalità organizzata;
- Il margine di apprezzamento dello Stato nella valutazione della pericolosità sociale;
- L’esistenza di meccanismi di impugnazione delle misure di prevenzione.
Tuttavia, la Corte EDU ha respinto tali eccezioni, sottolineando che:
- La flessibilità normativa non può pregiudicare i diritti fondamentali;
- Il margine di apprezzamento deve essere bilanciato dal rispetto di standard giuridici chiari e prevedibili;
- I meccanismi di impugnazione previsti dall’ordinamento italiano non offrono sufficienti garanzie di un equo processo.
Questa decisione conferma la necessità di una riforma delle misure di prevenzione per allinearle ai principi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
La sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) nel caso Gangemi c. Italia evidenzia, da un lato, la critica della limitata efficacia dei meccanismi di impugnazione in Italia e, dall’altro, una certa riluttanza verso la restrizione del margine per i ricorsi in Cassazione.
Sì, ci sono precedenti importanti in cui la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ha criticato il sistema di ricorsi in Italia, in particolare in relazione al ruolo e all’efficacia del ricorso in Cassazione. La Corte EDU ha evidenziato, in più occasioni, problemi legati all’accesso a un ricorso effettivo e al margine di discrezionalità lasciato alle autorità giudiziarie interne, che potrebbe comportare una limitata protezione contro potenziali ingerenze arbitrarie nei diritti degli individui. Eccessivo formalismo, preventiva verifica della forma e non del merito, limitazioni alle verifiche che la Corte di Cassazione può svolgere, sono innumerevoli i ricorsi che vengono respiti per la forma e non per la sostanza e ciò comporta un grave problema all’effettività dei tre gradi di giudizio.
Critica alla limitata efficacia dei meccanismi di impugnazione:
Nella causa in questione, la Corte europea ha discusso l’efficacia dei rimedi giuridici disponibili in Italia per contestare la misura della sorveglianza speciale. In particolare, ha affrontato il fatto che, pur essendo stato respinto il ricorso in Cassazione, questo non abbia offerto un reale esame sostanziale delle argomentazioni avanzate dal ricorrente, ma si sia concentrato principalmente su aspetti procedurali. La Corte sottolinea che un meccanismo di impugnazione non può considerarsi efficace se non garantisce una valutazione completa dei meriti del caso.
Inoltre, la Corte ha chiarito che la mancata ammissibilità del ricorso in Cassazione non giustifica l’inefficacia di un rimedio legale, poiché la questione sollevata dal ricorrente riguardava la legittimità della base giuridica della misura imposta, che non è stata adeguatamente esaminata. Questo rappresenta una critica implicita alla limitata capacità dei sistemi giuridici interni di rispondere a richieste di giustizia, se il sistema di impugnazione non fornisce una revisione adeguata dei principi legali e sostanziali sottesi alle decisioni.
Critica sulla restrizione del margine per i ricorsi in Cassazione:
La Corte evidenzia anche come, nella legislazione italiana, l’accesso alla Corte di Cassazione sia limitato in base a motivazioni formali piuttosto che sostanziali. In particolare, la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso in quanto la motivazione della sentenza di appello non fosse sufficiente a giustificare una revisione sul merito. Questo ha limitato il margine per l’esame del caso da parte della Cassazione e, di fatto, ha escluso la possibilità di una discussione approfondita sulle questioni sollevate dal ricorrente, come la prevedibilità della base giuridica della misura di prevenzione applicata.
In sostanza, la Corte critica il sistema giuridico italiano per la sua rigidità nell’ammettere ricorsi in Cassazione solo per motivi specifici e limitati. Questo riduce la capacità dei tribunali superiori di intervenire quando vi sono problemi legati alla chiarezza e prevedibilità delle leggi applicabili, come nel caso in esame. In tale contesto, la Corte sottolinea che la mancanza di chiarezza nelle disposizioni giuridiche – che aveva già sollevato una violazione nel caso De Tommaso c. Italia – non è stata affrontata adeguatamente nel sistema giuridico italiano, nonostante l’importanza di tale previsione per evitare ingerenze arbitrarie nella vita dei cittadini.
La violazione dell’articolo 2 del Protocollo n. 4:
La Corte ha concluso che, in base alla giurisprudenza preesistente, le disposizioni applicabili al ricorrente nel caso in esame non erano sufficientemente chiare e prevedibili, violando così l’articolo 2 del Protocollo n. 4 della Convenzione. Questo articolo stabilisce il diritto alla libertà di circolazione e residenza, e la Corte ha ritenuto che la mancanza di chiarezza nella legislazione italiana abbia portato ad una violazione dei diritti del ricorrente.
In sintesi, la sentenza del caso Gangemi c. Italia solleva importanti questioni sulla trasparenza e l’efficacia del sistema giuridico italiano, critiche che riguardano sia la limitata efficacia dei rimedi interni (e la difficoltà di contestare misure di prevenzione come la sorveglianza speciale), sia la restrizione del margine per i ricorsi in Cassazione, che ha impedito una revisione sostanziale delle problematiche sollevate dal ricorrente.
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