Più Conosci, Più Sai, Più Sei Libero

Più Conosci, Più Sai, Più Sei Libero
Una riflessione su conoscenza, libertà e controllo

Nella sala austera di un tribunale di Hong Kong, con gli occhi del mondo puntati addosso, un politico locale, Jimmy Lai, ha pronunciato una frase tanto semplice quanto potente: “Più conosci, più sai, più sei libero”.

“The more information you have, the more you are in the know, the more you’re free”

Una massima che, nell’epoca delle democrazie fragili e dell’informazione manipolata, risuona come un manifesto universale, ma che pare assumere un’eco particolare per chi osserva l’Italia degli ultimi decenni.

In un contesto in cui la conoscenza è divenuta la moneta di scambio per eccellenza — non solo nelle stanze del potere, ma anche nelle vite quotidiane — il legame tra sapere e libertà appare al contempo ovvio e controverso. Come possiamo essere liberi, infatti, senza gli strumenti per comprendere ciò che ci circonda? Come possiamo esercitare il nostro diritto di dissentire se ci mancano i mezzi per discernere verità e propaganda?

La conoscenza come strumento di emancipazione

La frase del politico di Hong Kong si inscrive in una lunga tradizione filosofica che collega il sapere alla libertà. Da Socrate a Kant, la conoscenza è sempre stata vista come la chiave per affrancarsi dall’ignoranza, il primo passo verso l’autonomia morale e politica. Per Kant, l’Illuminismo rappresentava proprio questo: “l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a sé stesso”. Ma cosa accade quando le istituzioni, anziché promuovere questa emancipazione, vi si oppongono?

Negli ultimi anni, l’Italia ha assistito a una serie di trasformazioni che sembrano allontanare sempre più il sapere dalla libertà. I tagli all’istruzione pubblica — spesso giustificati da esigenze di bilancio — non sono solo un colpo al sistema scolastico, ma un attacco alla capacità del cittadino medio di comprendere il mondo. Una scuola impoverita è una società impoverita, e una società impoverita è una società più facile da controllare.

Parallelamente, i media italiani si sono trovati incastrati in una spirale di faziosità e sensazionalismo. I telegiornali, sempre più polarizzati, non informano ma conformano; i quotidiani, spesso finanziati dallo Stato, non sono più il cane da guardia del potere, ma il suo addomesticato megafono. La manipolazione delle notizie — o la loro omissione — diventa una forma sottile di censura, un modo per garantire che ciò che non si sa non possa diventare oggetto di contestazione.

La criminalizzazione del dissenso

Il collegamento tra sapere e libertà si fa ancor più evidente quando si osserva la crescente criminalizzazione del dissenso in Italia. Recenti normative, dagli ostacoli imposti alle manifestazioni pubbliche alle accuse di reati come “interruzione di pubblico servizio” o “diffamazione aggravata” per chi si oppone al potere, dipingono un quadro preoccupante. La protesta viene stigmatizzata; chi alza la voce viene isolato.

E qui emerge un paradosso: per dissentire, bisogna prima sapere. Non si può criticare una legge ingiusta senza conoscerne il contenuto. Non si può contestare una decisione politica senza comprenderne le implicazioni. Criminalizzare il dissenso, dunque, equivale non solo a soffocare la libertà di espressione, ma a rendere impossibile l’accesso alla conoscenza che lo rende possibile.

In questo senso, l’Italia sta percorrendo una strada pericolosa, simile a quella di altre nazioni che hanno scelto di sacrificare la libertà sull’altare del controllo. L’approccio ricorda quello di regimi autoritari, dove l’ignoranza è coltivata come strumento di stabilità politica.

La conoscenza nell’era digitale: un’arma a doppio taglio

Eppure, non tutto è perduto. Nell’era digitale, l’accesso alla conoscenza non è mai stato così semplice, almeno in teoria. Una connessione internet può aprire le porte a biblioteche, corsi universitari, documenti governativi. Ma anche qui emergono nuove forme di controllo. Gli algoritmi decidono cosa vediamo e cosa non vediamo, mentre le piattaforme sociali — che dovrebbero democratizzare il sapere — diventano spesso eco-chamber che rafforzano pregiudizi e disinformazione.

L’Italia, con il suo basso livello di alfabetizzazione digitale, rischia di subire più di altri questa dinamica. Non basta avere accesso a internet per essere informati; bisogna saper discernere, analizzare, valutare. E questi strumenti si apprendono a scuola, nelle biblioteche, attraverso i media indipendenti. Esattamente i settori che, negli ultimi anni, sono stati erosi.

Conoscenza e libertà: una sfida giuridica

Sul piano giuridico, il diritto alla conoscenza e all’informazione dovrebbe essere protetto come una componente essenziale della libertà individuale. La Costituzione italiana, all’articolo 21, tutela la libertà di espressione e di stampa, ma questo diritto rischia di diventare vuoto senza un contesto che garantisca un accesso equo e pluralistico all’informazione.

Forse è il momento di aggiornare il nostro concetto di “libertà di espressione”, includendo un obbligo positivo per lo Stato di promuovere l’educazione critica e il pluralismo mediatico. In un mondo dove la manipolazione è più sofisticata che mai, garantire ai cittadini gli strumenti per conoscere e capire è non solo una questione educativa, ma anche una necessità giuridica.

Conclusione: un monito e un’opportunità

La frase pronunciata in un tribunale di Hong Kong dovrebbe essere un monito per tutti noi. Libertà e conoscenza sono inscindibili; l’una non può esistere senza l’altra. Se l’Italia vuole davvero definirsi una democrazia avanzata, deve investire nel sapere: nelle scuole, nei media indipendenti, nella promozione del pensiero critico.

Perché alla fine, come ci ricorda la storia, il controllo sull’informazione è il primo passo verso la tirannia. E, per dirla con le parole di quel politico di Hong Kong, “più conosci, più sai, più sei libero”.

 

“The Weight of Knowledge”

 

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